giovedì 21 maggio 2015

Il Rospo


Ho appena terminato "Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell'Inghiletrra moderna." di Matteoni, Francesca. E' stata una lettura un po' pesante che non so se avrò modo di recensire, ad ogni modo, prima di guardarmi la puntata di Salem di sta sera, mi è venuta voglia di parlavi di questo animaletto, che nel mio immaginario corrisponde come il Gatto nero, all'assoluta figura del Famiglio.
 Vi presenterò un Estratto da "Acquario. Simboli, miti, credenze e curiosità sugli esseri delle acque: dalle conchiglie alle sirene, dai delfini ai coccodrilli, dagli dei agli animali fantastici."
di Alfredo Cattabiani - Libro ormai introvabile, spero possiate apprezzare e farne tesoro.



Il rospo della Grande Madre e il rospo delle streghe

A sua volta il rospo (genere Bufo, che in Europa ha tre specie: Bufo bufo, Bufo viridis e Bufo calamita) ha evocato nel nostro immaginario occidentale, dal Medioevo a oggi, simboli in prevalenza negativi fi­no alla sua demonizzazione. All'origine di questa avversione vi è forse il senso di ribrezzo e di repulsione provocato dal suo aspetto, ma anche il veleno contenuto in alcune ghiandole che lo rendono una difficile preda, tranne che per la biscia dal collare che ne è im­mune: si tratta della bufotenina, un alcaloide contenuto nel liquido lattiginoso secreto dalle ghiandole, che può procurare irritazione al­ le mucose; ed essendo anche un allucinogeno permette di capire perché le fattucchiere medievali usassero i rospi nelle loro cerimo­nie, come si dirà più avanti.
Per tutti questi motivi, ma anche perché è un animale notturno come il gufo e la civetta, lo si è considerato sede di una potenza ne­fasta. Pure è uno degli agenti più preziosi nella lotta biologica contro i parassiti delle piante coltivate; ed essendo un animale notturno ha la stessa funzione degli uccelli insettivori, distruggendo larve di ar­tropodi e lumache.
In epoca arcaica, invece, non aveva una valenza negativa, anzi lo si considerava manifestazione di una benefica forza tellurica, con qualità terapeutiche straordinarie. Era, come la rana, un attributo
delle Grandi Madri: lo dimostrano per esempio i rilievi di Montmorillon (Vienne), che raffigurano la dea Iside nuda con due rospi at­taccati ai seni.140 E non casualmente l'epiteto di Ecate, nell'antica
Grecia, era frynìtis, ovvero «rospica» (da frxjne, rospo, che era pure detto fusalos).
L'animale era sacro anche a Ragana, la dea lituana della morte e della rigenerazione di cui era la manifestazione sensibile. Anche Baba Yaga, l'antica dea della morte e della rinascita della mitologia sla­va, che si è preservata nei racconti popolari in una forma degradata, come strega, poteva trasformarsi in rospo.
Ancora agli inizi del XX secolo si credeva che se non lo si fosse trattato con rispetto, sarebbe divenuto pericoloso quanto la stessa dea. Chi avesse sputato su un rospo sarebbe morto. Se qualcuno lo avesse irritato, l'animale si sarebbe gonfiato e sarebbe esploso schiz­zando un veleno mortale. «Incarnazione dei poteri della dea della morte e della rigenerazione» osserva Marija Gimbutas, «il rospo po­teva dare sia la morte sia la vita.»142 La scrittrice riporta nel suo saggio anche due immagini stilizzate di rospi, l'una risalente al 6000 a.C., l'altra al XIX secolo, le cui teste sono gigli ermoglianti, simbo­li di rigenerazione.
Come attributo della Grande Madre dai molti nomi, ma anche co­me anfibio, era collegato sia alle acque sia alla terra. Ancora nel Rinascimento, come testimonia Ripa, era un attributo della terra, così
descritta: Donna d'età matura, non molto grande, con una veste berrettina del co­lor della terra, nella quale vi saranno alcuni rospi, e sopra la detta veste ha vera un manto verde cor diverse herbette, fiori, e spighe di grano e uve bianche e negre, con una mano terrà un fanciullo che poppa, e con l'altra
abbracciato un uomo morto, dall'altra poppa scaturirà una fonte, quale anderà sotto li piedi, nel quale vi saranno diversi serpenti, sopra la testa terrà una città, hauerà al collo dell'oro, e delle gioie, alle mani e ai piedi ancora.
Anche nel Messico antico simboleggiava la terra, mentre il suo le­ game con l'acqua era testimoniato dalle immagini di Chac, il dio maya della pioggia, che nelle tradizioni popolari era spesso accompagnato da rane e rospi. Quanto alla sua «lunarità», è testimoniata dalla credenza secondo la quale Ixchel, la dea maya dell'acqua maanche della luna, era accompagnata da attendenti nelle sembianze di rane e rospi. Si veneravano anche un dio delle rane e uno dei rospi, rispettivamente Uè e Ampò.
Siccome dopo un violento acquazzone gli stagni pullulano più del consueto di minuscoli rospi, anticamente si sosteneva che esso nascesse dalle nuvole; perciò i Greci lo chiamavano diopetés, «caduto dal cielo». Se dunque l'anfibio presentava tante affinità con l'ele­mento acqua, non c'è da meravigliarsi, come osserva Giuseppe Faggin, se nelle congreghe sataniche si adoprava la polvere ottenuta da rospi bruciati e tritati nell'intento di suscitare temporali e tempeste.
Questo legame con l'acqua lo rendeva un barometro vivente, tant'è vero che quando si tuffava spesso in acqua e le rane aumentavano l'intensità dei gracidii, si riteneva che avrebbe piovuto presto.145
Appartenendo all'elemento umido, il rospo è particolarmente importante nella mitologia cinese, dove rappresenta il principio yin, la longevità, la ricchezza e la capacità di accumulare denaro. Si favo­
aleggiava anche che sulla luna vivesse un rospo a tre zampe; le quali si possono interpretare come le «tre facce della luna»: crescente, calante, nera.
È presente anche nell'alchimia medievale e rinascimentale dov'è simbolo della partecipazione acquatico-terrestre alla purificazione della materia primordiale, partecipazione che deve essere collegata a quella dell'elemento volatile. Con questo significato compare nelle figurazioni del manoscritto Egerton 845 del British Museum (XY-XVI secolo).
Un particolare significato simbolico assume all'interno dell'alle­goria alchemica quando lo si rappresenta sul seno di una donna. Co­sì la scena allegorica veniva spiegata da Michael Maier: «Metti il rospo sul seno della donna perché questa lo allatti e muoia, e il rospo sia gonfio di latte». L'allegoria rappresenta il processo che costituisce una delle fasi per produrre la pietra filosofale. La materia primordiale dev'essere impregnata con latte di vergine (cioè latte filo­sofico, succo lunare) per essere così «nutrita». Il «figlio» che deve crescere viene allattato dalla madre, la quale nel far ciò muore. Tale procedimento è detto ablactatio ovvero «svezzamento».

Il rospo velenoso
Già in epoca classica il rospo aveva suscitato credenze terrificanti.
«Vi sono addirittura degli animali» scriveva Eliano «che uccidono con un rutto chi li abbia anche solo toccati, come la dipsade e il ro­spo.»
A sua volta Plinio il Vecchio riferiva:
Ho appreso che esiste una specie di rospo che rende mortali le pozioni e produce soltanto guai a vederlo. Può preparare infatti una pozione fatale chi dopo avere triturato il rospo offre da bere a un'altra persona il sangue di quell'animale versandolo perfidamente nel vino o nelle bevande che si pre­stino a tale mistura, secondo il giudizio dei detestabili individui esperti in queste cose. E la morte non avviene dopo un certo intervallo di tempo, ma è istantanea. Anche soltanto la vista di questo rospo produce guai. Ed ecco co me. Se uno gli si pone davanti e lo guarda fissamente, esso, obbedendo al suo istinto, ricambia arditamente lo sguardo ed emette un soffio che per lui è naturale e innocuo, ma per l'uomo è dannoso alla pelle; gliela tinge infatti di un giallo così intenso che chi ne è colpito, se incontra qualcuno che non lo ha visto prima, può sembrare affetto da qualche malattia. Questo colore, do po non molti giorni, sparisce.
Sul potere del suo sguardo fiorì nel Medioevo la credenza secon­ do la quale l'uomo che avesse osato fissare troppo a lungo un rospo negli occhi, sarebbe impallidito, avrebbe cominciato a tremare e tal­
volta sarebbe svenuto. Ma il rospo a sua volta non aveva la forza di vincere la spirituale potenza dello sguardo umano, se si riusciva a fissarlo a lungo resistendo al suo influsso. L'abate Rousseau, un cap­puccino medico alla corte di Luigi XIV, racconta che un giorno, passeggiando in campagna, s'imbatté in un rospo gigantesco. Ricordano dosi della credenza sul potere dello sguardo umano, provò a fissarlo
con insistenza finché la sua curiosità fu soddisfatta: il rospo si gonfiò enormemente e, senza distogliere lo sguardo dall'abate, cominciò a soffiargli con rabbia sul viso quasi per cancellarlo; poi, come un pal­lone che si affloscia, rese l'anima a Dio. Fu tale lo spavento del Rous­ seau che si sentì sul punto di svenire per poi cadere in uno stato di prostrazione dal quale sarebbe guarito lentamente, curandosi per ot­to giorni di seguito con una pozione di polvere viperina.
Dei terribili effetti del suo veleno era convinto ancora nel XVI se­colo Ambroise Paré, che pure impresse alla chirurgia un rapido e de­cisivo progresso:
Benché i rospi non abbiamo denti, tuttavia non mancano di avvelenare la parte che mordono con le loro labbra cascanti e le gengive, che sono aspre e ruvide al tatto, facendo passare il veleno attraverso i condotti della parte rosicata Inoltre gettano veleno mediante l'urina, la bava, e vomitano sulle
erbe, e specialmente sulle fragole, di cui sono molto golosi. Non ci si deve meravigliare perciò se le persone, dopo avere assorbito questo veleno, muoiono di morte istantanea.
La fantasia popolare aggiungeva nuovi particolari: si diceva che fosse coperto da una pelle grossa e resistente perché gonfiandosi e riempiendosi di aria potesse resistere meglio ai colpi. Schizzava uri­na e un alito velenoso verso gli imprudenti che lo odoravano. Si fa­voleggiava che persino il suo sudore, quando lo si stuzzicava, potesse accecare; e che fosse addirittura capace di sputare negli occhi di coloro che lo infastidivano.
Poteva strisciare su una persona addormentata e berne il respiro, provocandone la morte. Negli Stati Uniti sopravvive una credenza popolare secondo la quale i rospi possono suscitare verruche con il
solo apparire. Fino al secolo scorso nelle Alpi bavaresi si pensava invece che i rospi avessero un potere terapeutico se fossero stati uccisi nei giorni della Madonna, il 15 agosto e l'8 settembre. Erano invece causa di morte negli altri giorni. Catturati nei giorni di festa, venivano in­ chiodati sulle porte delle case e delle stalle per proteggere esseri umani e animali dalla malattia e dalla morte.

Il rospo come farmaco
Ogni veleno, come si sa, può essere usato come farmaco. Anche il rospo velenoso lo diventò: si credeva che fosse un centro di attrazione di tutte le sostanze velenose, come sottolineava Athanasius Kircher sostenendo che, grazie alla facoltà di attirare tutti i veleni che inquinavano il suo habitat, compiva una funzione disinfestante e, pur appartenendo alla zona della diabolicità, rientrava nel piano provvidenziale di Dio; perciò veniva posto sotto il letto dei malati, dove si gonfiava fino a scoppiare, impregnato dell'aria mefitica che circondava i febbricitanti. Si diceva che aspirasse il veleno a distanza e in particolare quello della febbre tifoide; ma fino a un certo limite, perché poi tornava a diffondere ad altri esseri il miasma accumulato; sicché occorreva ucciderlo al momento giusto.
In Provenza veniva rinchiuso in una trottola di terracotta con del­l'olio di oliva e poi cotto nel forno del panettiere. L'olio così ottenuto veniva usato per curare le febbri maligne. Se lo si essiccava e poi lo si appendeva al soffitto della casa, proteggeva dalla paura e dall'an­goscia.
A sua volta Plinio il Vecchio riferiva le tante virtù terapeutiche del rospo, che chiamava rana rubeta perché «viveva tra i rovi»: Gli autori fanno a gara nel raccontare meraviglie di queste rane. Se vengono portate in assemblea si fa silenzio; se si getta nell'acqua bollente un os­sicino che si trova nella parte destra, il recipiente si raffredda e non bolle più finché non si toglie l'osso; questo si trova buttando la rana alle formiche, che ne rosicchiano la carne, e gettando le ossa, a uno a uno, nell'olio; nel lato si­nistro vi sarebbe l'osso che, buttato dentro il recipiente, pare lo faccia bolli­re; si chiama apó-kunon (anticani) e ferma l'assalto dei cani, stimola gli amo­ri e i litigi se messo nelle bevande; come amuleto eccita la libidine, mentre al contrario l'ossicino del lato destro raffredda i bollori; guarisce anche le quartane e altre febbri; se lo si porta addosso come amuleto in un pezzo di fresca pelle di agnello, frena l'amore. La milza è d'aiuto contro i veleni che sono da essa stessa prodotti; il fegato è tuttavia più efficace.
E aggiungeva: Timeo, Eraclide e il medico Diocle dicono che i rospi hanno due fegati; uno è apportatore di morte, invece l'altro, suo rivale naturale, di salvezza.
Anche i suoi occhi avevano una doppia funzione risanatrice: il destro, sospeso al collo in un pezzo di stoffa non tinta, serviva a guarire l'oftalmia dell'occhio destro, il sinistro dell'occhio sinistro.
Secondo Dioscoride la cenere di tre rospi bruciati vivi, mescolata a miele, o meglio a pece liquida, curava l'alopecia.
Nella medicina rinascimentale e barocca i rimedi offerti dall'ani­male si moltiplicarono. Le zampe di un grosso rospo, recise mentre era ancora vivo e applicate al collo di una persona affetta da scrofo­
la, la guarivano; il fegato, essiccato all'ombra, applicato sulla natta (cisti sebacea del cuoio capelluto o tumore benigno detto ateroma), la eliminava a poco a poco; la cenere o polvere di rospo, sospesa al
collo di una donna dai flussi mestruali irregolari, ne avrebbe ristabi­lita la regolarità. La stessa polvere avrebbe guarito dall'incontinenza urinaria; assunta per uso interno, avrebbe curato l'idropisia; posta
sui reni, avrebbe sbloccato l'anuresi; cosparsa sopra una parte offesa da un morso velenoso, avrebbe attratto a sé il veleno; applicata sulle piante dei piedi, sarebbe stata un rimedio efficace contro le febbri e i disturbi cardiaci. Le ossa delle sue cosce, accostate ai denti, li avrebbero guariti da ogni dolore.
Claude Lévi-Strauss descrive uno strano rituale amazzonico in uso presso i Tubi Kawahib, al quale potè assistere:Ecco ora, ai confini della magia nera, la Oraqao do sapo seco, orazione del rospo secco, che si trova in un libro in commercio, il Livro de Sào Cipriano. Ci si procura un grosso rospo curucu o sapo leiteiro, lo si sotterra fino al collo un venerdì, gli si fanno inghiottire delle braci accese. Dopo otto giorni si può andare a cercarlo, esso è scomparso. Ma nello stesso luogo nasce un «arbu­sto a tre rami», di tre colori. Il ramo bianco è per l'amore, il nero per il lutto, il rosso per la disperazione. Il nome della preghiera deriva dal fatto che il rospo si dissecca e quindi neanche l'avvoltoio può mangiarlo. Si coglie il ra­mo che corrisponde all'intenzione dell'offiriante e lo si tiene nascosto a tut­
ti. La preghiera si pronuncia al seppellimento dell'animale.
Veniva anche adoperato come farmaco contro la peste. Presso le popolazioni della Germania settentrionale se ne essiccava la pelle che, applicata sulle parti malate (così si sosteneva), attraeva il veleno pestilenziale sino a gonfiarsi sensibilmente.Vi fu anche chi, come Giovanni Battista Van der Helmont, fabbricò pillole composte di ro­spi morti e appesi per tre giorni a testa in giù accanto a un gran fuo­co, della loro materia mucosa e infine dei vermiciattoli trovati nei lo­ro occhi: il tutto veniva impastato con cera e gomma arabica. Le pillole, poste sopra la mammella sinistra dell'appestato, avrebbero allontanato il contagio; collocate sopra la parte infetta, avrebbero ad­dirittura estratto il veleno. Furono chiamate xenechtum, xenechdon, zeneton, ovvero amuleto.



La bufonius lapis o pietra respina
Si favoleggiava che il rospo possedesse una pietra portentosa, il bufonius lapis o pietra rospina: crapaudine in francese, Krotenstein o Krottenstein in tedesco. Questa credenza, diffusa nel Medioevo e nel Rinascimento, risaliva all'antichità: i Greci la chiamavano batrakités e i latini bora. Auguri e indovini la consultavano. Si diceva che si co­prisse di sudore al contatto di una coppa dove fosse stata versata an­che una sola goccia di veleno.
I principi la ricercavano come amuleto e rarità di valore: lo testi­monia per esempio l'inventario dei gioielli del duca d'Angiò, re di Na­poli, di Sicilia e di Gerusalemme, del 1360, che menziona una coppa di cristallo tempestata di smalti, il cui coperchio conteneva nel po­mello una pietra rospina. Le più ricercate erano quelle che presenta­ vano sulla superficie un disegno a forma di croce stellata o di rospo.
Il bufonius lapis, della grandezza di una nocciola, si sarebbe trovato nella testa del rospo e più esattamente nella fronte, oppure, secondo un'altra credenza, nel cervello; ma soltanto nei rospi grossi e vecchi.
Si credeva che l'animale sputasse o vomitasse la pietra rospina incer­te circostanze: per esempio, con un panno rosso lo si spingeva a entra­re in una buca, dove lo si teneva esposto al sole finché, tormentato dalla calura e dall'arsura, non fosse indotto a vomitarla; poi, con un recipiente opportunamente disposto, la si raccoglieva con la massima sollecitudine affinché non se la riprendesse. Un altro metodo di estra­zione consisteva nell'imprigionare il povero animaletto in un vaso di terracotta forato qua e là per poi depositarlo in un formicaio: le formi­che lo avrebbero spolpato lasciando la pietra insieme con le ossa.
L'estrazione, la confezione e la vendita della portentosa pietra erano monopolio delle fattucchiere,161 mentre gli orafi, dato il suo valore commerciale, confezionavano anelli d'oro e d'argento dov'era incastonata in modo da poter essere in diretto contatto con la pel­le e trasmettere così a tutto il corpo le sue virtù.
Oltre a svelare e neutralizzare ogni veleno il bufonius lapis sedava le infiammazioni prodotte da animali velenosi: bastava porlo a con­tatto con la parte lesa o strofinarvelo sopra leggermente.
In realtà le pietre rospine sono concrezioni di animali di varia na­tura. Le più celebri sono piccoli ricci fossili più o meno traslucidi per cristallizzazione, varietà di Coxàia conica, un echinoide di piccola di­
mensione. «Circa cinquantanni fa» scriveva nel 1940 Charbonneau Lassay «si raccoglievano ancora; venivano montate in pendenti co­me preziosi talismani contro molte malattie e avversità.»
Secondo De Gubematis, che attribuiva spesso un simbolismo so­lare o lunare agli animali, sarebbe facile capire perché dal corpo di un animale che suscitava ribrezzo si potesse estrarre una pietra così
miracolosa. Secondo lo studioso torinese quella pietra era simbolo del sole che all'alba è destinato a uscire dalle tenebre della notte o, in primavera, da quelle deH'invemo. Ma ci pare un'interpretazione arzigogolata.


Il rospo e i suoi avversari: la donnola, il serpente e il ragno
Nel Medioevo si credeva che il rospo, con il suo sguardo fascina­tore, riuscisse a spingere la donnola a gettarsi nelle sue fauci. «Il ro­spo» scriveva Ripa descrivendo l'emblema dell'istinto naturale «ha
tale istinto e tale proprietà della sua forma che per virtù occulta tira a sé la donnola come la calamita il ferro e l'ambra la paglia, la quale attrattione si fa per mezzo di quelle spetie, le quali provengono dal­la propria forma e si moltiplicano nell'aria sino a che arrivano a fare l'effetto dell'attione.» Su questa supposta capacità i moralisti idearono un'allegoria per mostrare come l'essere più astuto, la don­nola, potesse diventare preda della lussuria, simboleggiata, come si spiegherà più avanti, dal rospo. Così scriveva Camillo Camilli nel XVI secolo:
Coetera qui vincis, Ubi curdominata uoluptas Te haud improvisum mergit in exitium?
Tu che ogni essere vinci, perché la voluttà che sai dominareti trascina improvvisamente alla morte che pur hai presagito?
Ma Athanasius Kircher spiegava questa facoltà magnetica soste­nendo che la morte della donnola fosse dovuta all'alito velenoso dell'animale.
Un'altra naturale inimicizia era quella con il serpente. Si favoleg­giava che i rettili velenosi divorassero i rospi per potere attingervi una maggiore riserva di veleno.167 Ma, contraddicendo questa cre­denza, si narravano anche mostruosi accoppiamenti del batrace con serpi velenose da cui nascevano rospi con code serpentine. Persino Ulisse Aldrovandi, che pur contestava la possibilità di quegli accop­piamenti, riferiva senz'ombra di dubbio che nel 1555, in un paese della Turingia, un rospo con una lunga coda di serpente era nato ad­dirittura da una donna...
Quanto ha inimicizia fra rospo e ragno, era addirittura proverbia­le. Il ragno sospeso alla ragnatela, si diceva, piombava sul rospo pungendone il cervello; e il rospo furibondo e assetato di vendetta si
gonfiava fino a scoppiare.
Si narrava a questo proposito che un giorno un uomo si era di­steso su alcuni arbusti verdi che aveva ammassato per riposarsi. Mentre dormiva, un rospaccio gli si era posato sulla bocca aperta minacciando di soffocarlo. Nessuno osava toccarlo per timore del suo veleno. Fortunatamente alla finestra di una vicina capanna c'e­ ra un ragno. Si decise di trasportarlo sopra il poveretto. Quando
l'animaletto si accorse del rospo si scagliò su di esso pungendolo due o tre volte e costringendolo così ad abbandonare la pericolosa posizione.


Il rospo demoniaco.
Nello zoroastrismo era un attributo di Ahriman, la potenza del male, ma nello stesso tempo emblema della fertilità, come nelle tra­dizioni arcaiche.
Charbonneau-Lassay ricorda che l'accostamento fra il rospo e lo spirito «immondo» si ritrova ancora nel secolo scorso nell'Annam, dove il rospo-bufalo, che al crepuscolo getta una specie di latrato si­
nistro, viene talvolta interpretato come veicolo di Macu!lo spirito del male. E aggiunge anche: «In Africa gli indigeni della regione meridionale del lago Ciad colano in rame e cesellano l'immagine di
un rospo feticcio e malefico; con lo stesso metallo e allo stesso modo fanno anche dei serpenti che divorano il suddetto rospo, e queste immagini neutralizzano le cattive influenze del batrace malfama­
to».
Anche la cristianità lo demonizzò considerandolo simbolo di molti vizi: della lussuria perché i suoi amplessi erano considerati li­bidinosi e schifosamente aggressivi; dell'accidia perché il suo passo
è lento, incerto, indolente; dell'avarizia perché scava nel terreno per nascondervi chissà quali tesori; della gola perché mangerebbe la ter­ra con disgustosa avidità; della collera perché quando è toccato e ir­ritato si adira e secerne un liquido velenoso; della superbia perché quando si trova di fronte a un piccolo animale si gonfia con alterigia per dimostrare la sua superiorità; dell'invidiosa maldicenza perché il suo verso è rauco, sordo, inafferrabile.
Partecipava all'emblema dell'ingiustizia, impersonata da una donna con un vestito bianco pieno di macchie, che teneva nella ma­no destra una spada e nella sinistra un rospo, mentre per terra giace­
vano le tavole della Legge spezzate insieme con un libro, e sotto i suoi piedi delle bilance. Cesare Ripa sosteneva che fosse emblema dell'ingiustizia che ha l'origine nell'avarizia ovvero «ne gli interessi e nel desiderio delle comodità terrene, e però non è un vitio solo particolare nella parte del vitio, ma una malvagità, nella quale tuttele scelleraggini si contengono, e tutti i vitij si raccolgono».
Cecco d'Ascoli, invece, lo vide come il peccatore che fugge la luce del Creatore:
Aspro veneno dico ch'è nel botro
che, per freddezza, fa le membra morte.
Ha li occhi ardenti e '1 corpo ha sì com'otro;
se tu mai cerchi, nel suo lato dextro,
dell'osso che le genti non so' accorte,
ha gran virtude: di ciò t'amaestro.
La fervente acqua subito la fredda,
vale ad amor et a molte altre cose,
e anche la quartana febre sedda;
fugge la ruta e mangia le dolci erbe
e le radice lor fa velenose;
la salvia li par che lui conserve.
Fugge l'aspetto, quanto può, del Sole;
nel bruno tempo lassa le caverne,
per più salute sempre l'ombra cole.
Così disdegna, fuggendo, la luce
la mente che '1 peccato non disceme
e sempre nella pena si conduce:
purché '1 Fattore tema criatura
a cui celar no può la sua figura.
Grazie al suo polivalente simbolismo fu spesso utilizzato dagli scultori delle cattedrali. A Bourges, per esempio, un rospo, quale sim­bolo della lussuria, è raffigurato neiratto di mordere i seni di una don­na; e un altro, simbolo della maldicenza, nell'atto di mordere la linguadi un monaco. Fu soprattutto utilizzato come simbolo della lussuria, come mostrano per esempio i dipinti che rappresentano le tentazioni di sant'Antonio abate, o molte altre opere di pittori, da Bruegel il Vec­chio a Hieronymus Bosch. A simboleggiare la lussuria furono scolpiti sul portale della chiesa romanica di Foussais, in Vandea, una sirena che afferrava un pesce e un enorme rospo. Nel Medioevo scultori, pit­tori e incisori lo mostrano insieme con un serpente e alcune lucertole a divorare gli organi sessuali dei dannati, rappresentati nudi o intenti atastare bramosamente dei seni gonfi di lussuria.
Ancora più eloquente è, nell'arte romanica, la rappresentazione della peccatrice divorata dal rospo: è nuda con il batrace che le divora i seni, si arrampica sulle cosce e addirittura penetra nella vagina. La
dissolutezza sessuale viene così punita dalla maledizione infernale.
Il Tentatole del Musée de l'Oeuvre de Notre-Dame, a Strasburgo, si presenta nelle sembianze di un bel giovane che offre la mela; sulla schiena e fra le pieghe dell'abito si arrampicano rospi e serpenti, ini­zialmente invisibili allo sguardo dei fedeli.
Il rospo veniva anche considerato uno strumento per punire, nel­l'inferno, il peccato di ingordigia, come testimonia il cinquecentesco Le grand Kalendrier et Compost des bergiers, facendo raccontare a Lazza­ro, dopo la sua resurrezione, che nel mondo dei dannati aveva visto un fiume sulle cui rive i diavoli infilavano degli orribili rospi e altre bestie velenose nelle bocche smisuratamente aperte dei crapuloni.
Divenne persino una delie possibili incarnazioni del diavolo. Nel­la scultura romanica rappresenta infatti il demonio che l'esorcizzato rivomita, come per esempio sul portico della chiesa di Saint-Légier di Montbrillais (Vienne) o in una miniatura del XVI secolo riportata da Barbier de Montault;176 oppure sgorga dalla bocca dei demoni raffigurando la sozzura delle loro parole. «Si potrebbe opinare, ma è un'ipotesi non sempre convalidabile» scrive Giuseppe Faggin, «che
esso abbia condiviso la sorte del "dio delle streghe": come costui da originario nume della fertilità (il caprone) si è poi trasformato in Sa­tana, il principe del male, così il rospo, da figura ctonia, si è poi tra­mutato in animale nefasto e diabolico.»
Forse da queste immagini è nata l'espressione «ingoiare il rospo», cioè subire una situazione spiacevole, oppure «sputare un rospo», ov­vero liberarsi di uno stato di sofferenza confessandolo liberamente. Sulla cappa di papa Clemente V, del XIV secolo, custodita a Saint-Bertrand de Comminges, il Salvatore comunica Giuda non con il pa­ne ma con un rospo, gesto ispirato dalle parole di Luca: «E Satana entrò in Giuda», e di san Giovanni: «E allora, dopo il boccone, Sata­
na entrò in lui».
Alla biblioteca Ambrosiana di Milano si vede san Michele che con la lancia trafigge non un drago ma un enorme rospo.


Il rospo e le streghe
Il rospo accompagnava le streghe nei loro sabba ovvero favoriva le estasi sciamaniche di quelle donne dotate di particolari poteri.
Siccome il veleno che contengono le sue ghiandole, la bufotenina, può provocare turbe allucinatorie, la carne di rospo veniva usata per preparare intrugli che permettevano loro di volare. «È sintomati­
co che in certe ricette occulte» osserva Luciano Pirrotta «l'intruglio stregonesco annoveri come ingrediente alternativo al rospo l'amanita muscaria, il fungo picchiettato di bianco che molti studiosi riten­gono la più antica, diffusa e utilizzata pianta fra le droghe allucinogene. Oltre a produrre effetti analoghi per l'azione dei rispettivi principi attivi, bufotenina nell'uno, acido ibotenico nell'altro, esiste­rebbe un ulteriore punto di contatto fra il rospo "diabolico" e l'aga­rico muscario: il primo infatti vive spesso in una simbiosi parassitistica col secondo, appostandosi all'ombra del fungo per divorare gli insetti che, incautamente avvicinatisi, rimangono storditi dalle sue proprietà tossico-inebrianti.»
Secondo una credenza medievale quei rospi venivano allevati in branchi in riva alle paludi: li sorvegliavano bambini votati al novizia­ to diabolico. Essi venivano rivestiti di tuniche di velluto rosso o nero per partecipare el battesimo del diavolo. Le streghe procedevano al­la cerimonia raccogliendo l'urina emessa dal demonio in un buco e versandola sul capo dei bambini con un aspersorio nero. Il satanico rito era accompagnato da segni della croce fatti a rovescio e con la
mano sinistra, e da formule incantatorie.
Il diavolo a sua volta segnava le streghe col suo marchio, unazampa di rospo in un angolo bianco dell'occhio: grazie a questo se­gno gli inquisitori - si favoleggiava - potevano riconoscere i seguaci
di Satana. I loro sbirri avevano l'ordine di perquisire, prima del pro­cesso, il domicilio degli accusati e di cercare diligentemente in tutti i luoghi dell'abitazione se non vi fosse per caso un rospo nudo o ve­
stito con una livrea. Pierre de Lancre compendiava in una frase sin­tetica quanto si faceva durante il sabba: «Garder, baiser, alicter, escorcer et manger les crapauds».
Si sosteneva che il rospo svolgesse nei confronti della strega la stessa funzione dell'angelo custode per gli uomini.Nella vita quotidiana era il suo famiglio accanto al gatto, di cui condivideva le
mansioni: avvertiva la padrona degli eventuali pericoli, le procaccia­ va cibo e denaro, procurava, se inviato da lei, morte e disgrazie ai suoi nemici e spesso l'appagava sessualmente. Alla cerimonia sabbatica la strega si recava assistita dal rospo, il suo «spirito familiare» come s'è detto, portandolo sulla spalla sini­stra. Ma nessuno lo poteva vedere se non streghe e stregoni. Era ve­stito di seta scarlatta e ricoperto di una leggiadra cappa verde-nera; inoltre, aveva una coppia di sonagli fissati al collo e alla zampa.
«Nel 1686» scrive Jean-Paul Clébert «una strana opera di Paullini,La storia naturale del rospo, racconta che le streghe assumevano in realtà la forma della bestia malefica, e Boguet si spinge ancora oltre raccontando che il diavolo stesso amava apparire sotto quell'aspet­to. Non c'è da stupirsi perciò che i signori facessero schiacciare tutti i rospi che potessero trovarsi nei dintorni del loro castello.»
Nella bolla Vox in Rama dei 13 giugno 1233 papa Gregorio IX de­scriveva i riti di iniziazione satanica che si praticavano nella regione renana fra i cosiddetti luciferiani. Il diavolo compariva sotto le spo­glie di un rospo che l'iniziando baciava appassionatamente fino a quando l'animale si trasformava in un uomo dal pallore straordina­rio: al Bel Tenebroso il novizio dava un altro bacio che lo spingeva a dimenticare la fede cristiana. Qualche secolo più tardi Pierre de Lan­ cre raccontava che alla cerimonia iniziatica seguiva una danza osce­na alla quale dovevano partecipare tutti i presenti: immancabili i ro­spi che, assumendo di volta in volta forme e volti diversi, ballavano con movimenti lascivi spingendo le streghe più belle alla lussuria.Spesso, nelle cerimonie sataniche, si portavano delle ostie consa­crate che erano state trafugate: le si faceva trangugiare al rospo pre­viamente benedetto. Immagini cinque-secentesche del sabba che raf­figurano queste orge mostrano corpi nudi avvinghiati in copule contro natura cui si frammischiano i rospi. Nelle confessioni rese agli inquisitori molti imputati sostengono, convintissimi, di avere danzato tenendo due rospi sui palmi delle mani o di avere parteci­pato, alternati al diabolico animale, al girotondo controsole eseguito
schiena contro schiena.
Dopo la danza orgiastica si giungeva al banchetto, momento cul­ minante delia cerimonia satanica. La strega, afferrato un rospo con i denti, lo scorticava vivo gettandolo poi nel calderone tra altri ingre­
dienti infernali. Oppure gli troncava la testa con un coltello e, alzan­do gli occhi al cielo, pronunciava bestemmie contro Dio. Il rito era evidentemente una parodia dell'eucaristia e il povero rospo la vitti­
ma sacra che si doveva uccidere e smembrare come l'ostia è spezza­ta e mangiata.
Il veleno di rospo era ancora usato nel secolo scorso in alcune re­gioni della Francia, come testimonia una condanna comminata nel 1932, dal tribunale di Metz, a una veggente che aveva composto una
mistura di carne di rospo per aver ragione di un cuore recalcitran­te.1»
Il rospo in alcune tradizioni popolari e in gastronomia Ma il rospo, nonostante questa paranoica demonizzazione, haconservato in alcune tradizioni popolari un aspetto positivo, pur li­
mitato a qualche sua funzione spirituale. Si favoleggiava, per esem­pio, che dopo la morte un uomo, che non avesse adempiuto un voto poteva farlo nelle sembianze di un rospo e arrivare finalmente in
cielo strisciando sull'altare di una chiesa della Pietà: sicché se di not­te si incontrava un rospo che stava goffamente camminando lo si ri­spettava.
Si raccontava anche che potesse essere l'incarnazione degli spiriti materni, protettori della casa, i quali la colmavano di tanti doni se li si venerava nell'animale...
Esistono anche ex voto tedeschi, detti «rospi di matrice» o Gebàrmutter-Kròten; di ferro argentato, erano offerti dalle donne in alcunisantuari della Baviera o dell'Alsazia-Lorena: sono custoditi nei mu­
sei di Strasburgo e di Nancy. «Un tempo» commenta Jean-Paul Clébert «si credeva che la vagina di una donna avesse la forma di un ro­spo rovesciato come un guanto.»185 In questa, come nella credenza precedente, sembra riaffiorare l'arcaico rapporto del rospo con laGrande Madre.
Due secoli fa il Pitré raccontava a De Gubernatis che in Sicilia portava fortuna; chi era sfortunato doveva procurarsene uno e nu­trirlo a casa propria con pane e vino e cibo consacrato, perché si so­
steneva che essi erano originariamente «signori» o «donne forestie­re» costretti a una metamorfosi a causa di qualche maledizione;sicché non soltanto non li si uccideva, ma non si doveva nemmeno
inquietarli per timore che, causando loro del male, venissero di not­te a sputare dell'acqua negli occhi di chi li aveva maltrattati, i quali non sarebbero mai guariti nemmeno se si fossero raccomandati a
santa Lucia.
Lo stesso De Gubernatis riportava anche una favola che gli aveva narrato una contadina di Cavour, racconto che sembra una variante msia della Bella e la bestia sia dell'apuleiano mito di Amore e Psiche.Un paralitico aveva tre figlie, Caterina, Clorinda e Margherita. Un.giorno, mettendosi in viaggio per consultare un medico celebre, do­mandò loro che cosa desideravano come regalo. Margherita rispose che avrebbe desiderato un fiore, soltanto un fiore.
L'uomo giunse infine nel castello dove avrebbe dovuto incontrare il medico: ma di costui non c'era nemmeno l'ombra.
Deluso, se ne ripartì per il proprio paese ma, cammin facendo, si rammentò del fiore che aveva dimenticato. Ritornò allora nel giardi­no del castello e si chinò per cogliere una margherita; proprio in
quel momento apparve un rospo, il quale con una voce sorprendentemente umana lo avvertì che sarebbe morto entro tre giorni se non gli avesse concesso una delle figlie come sposa.
Tornato a casa, il padre si confidò con le tre ragazze; le due più grandi si rifiutarono di sposare il rospo, la terza acconsentì per sal­vare il padre.
Dopo le nozze l'animaletto si trasformò in un bellissimo giovane raccomandando però a Margherita di non rivelare il segreto a nessu­no perché, se lei avesse parlato, sarebbe stato costretto a riassumere
le vecchie sembianze. Poi le donò un magico anello che le avrebbe permesso di ottenere tutto quanto avesse desiderato. Ma le sorelle, visitandola ogni tanto nel castello, cominciarono a sospettare che celasse qualche mistero; e presero a interrogarla connsistenza finché la sciagurata rivelò il segreto. Subito il giovane si ammalò e riprese le sembianze del batrace. Disperata, la giovane cercò di servirsi del magico anello per restituirgli l'aspetto umano; ma non riusciva a ottenere proprio nulla. Allora, delusa e sconsola­ta, andò a gettarlo in una vicina palude. Mai decisione fu tanto feli­ce: il giovane riapparve e da quel momento non riprese più la forma del rospo; sicché i due sposi, dopo tante vicissitudini, poterono vive­re per sempre «felici e contenti».
I rospi appaiono anche in gastronomia tant'è vero che un gour­met come Alexandre Dumas spiegava che si potevano anche man­giare. «I rospi delle Antille hanno la carne così buona e delicata co­me quella delle rane, e siccome sono molto grossi, due sono sufficienti per fare un buon piatto che si serve in fricassea e di cuigli indigeni sono ghiotti.» E soggiungeva che quando i negri africa­
ni erano afflitti da emicrania si sfregavano sulla fronte dei rospi vi­vi, ottenendo sollievo.

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